Tempo di attesa (Stamperia dell’Arancio, Grottammare 2000 – premio nazionale “D’Annunzio”
(copie a disposizione della famiglia su richiesta)
Nota dell’autore
L’arte è nella condizione umana. L’artista evidenzia la situazione esistenziale dell’uomo nel cosmo: egli dà voce, suono, immagine, forma, struttura, gesto, al ‘dramma’ di cui è tessuto l’universo umano.
I poeti, perciò, ci sono perché esiste la poesia, intesa non come realtà sussistente, come ipostasi platonica, ma come condizione metafisica. All’origine della poesia c’è, infatti, il sentimento della realtà come problema da svolgere, come ambiguità da decifrare, come mistero da interpretare, come paradosso da vivere, come infinita distanza da colmare, come ulteriorità in cui avventurarsi, come sentiero inconcluso, interrotto da un passo ancora impossibile.
La poesia è sempre ‘oltre’, ‘al di là’: nella ricerca non nella fuga, nella meraviglia non nell’indifferenza, nel gioco della vita non nel suo consumo, nell’utopia non nella rassegnazione.
La realtà non è il dato immediato, positività da contemplare, solare trasparenza, o negatività da rifiutare, male radicale, ma problema aperto, tensione dialettica verso un non-ancora aperto, una pienezza non-ancora esistente, una parusia non-ancora rivelata: solo un’ontologia ‘drammatica’, una metafisica della contraddizione, o almeno dell’ambiguità, permette un’apertura inesauribile in avanti del reale, carico di possibilità, di novità, di rischio.
Una metafisica della realtà come statica e definitiva positività o negatività permette solo una contemplazione o un rifiuto astorico, dove non c’è ‘pathos’ né ‘dynamis’, dove si annulla lo spazio per la poesia lirica o drammatica, politica o epica, ironica o satirica, utopica o escatologica. L’amore, la speranza, il gioco, l’incanto, il fascino, l’invocazione, la gioia, la festa, il tormento, la paura, la denuncia, lo sdegno, il dialogo stesso con l’assoluto, non sono possibili se si annulla la differenza ontologica, se si riduce il ‘dramma’. All’origine della poesia c’è la condizione umana: non la condizione psicologica che può generare solo il disagio, il lamento, il tedio, ma quella esistenziale dell’infinita distanza, dell’inesauribile ricerca, del rinvio oltre, dell’orizzonte aperto ma inarrivabile.
Il dramma è nella realtà: la poesia, perciò, è nella struttura ontologica, nel nucleo dell’essere.
E’ questa poesia nel cuore del reale a generare il poeta; non la sensibilità del poeta a generare poesia. La poesia genera il poeta, non viceversa.
Egli, tuttavia, non è un privilegiato, un toccato dallo ‘spirito’, un ipersensibile capace di cogliere gli ultrasuoni della psiche o un paranormale in grado di sintonizzarsi col mondo dello spirito, ma soltanto un interprete del dramma che si fa parola, grido, immagine. Egli non parla per conto d’altri, di un dèmone o di un dio, di un’entità immanente o sovrastorica, ma interpreta con la sua voce, dal suo personale punto di inserimento nella vicenda, il dramma che si svolge nella coralità della storia e di cui ciascuno partecipa in modo irripetibile.
La condizione esistenziale è madre della poesia: una condizione aperta, drammatica ma non disperata, sofferta ma affascinante.
Un’ontologia del non-ancora, lontana dalla mistica dell’ineffabile e dalla metafisica epifanica di un essere assoluto pienamente manifesto nella natura, nella storia, nell’animo umano, un’ontologia della speranza può fondare la poesia: la parola diventa, allora, profezia e ‘poiesis’, cui sono egualmente estranee la militanza e l’evasione.
Comprendere una poesia, allora, non significa fare un’operazione di analogia, di sintonia, di empatia, di risonanza: ciò permetterebbe solo una lettura sentimentale, egocentrica o addirittura autistica. L’interpretazione esige una condivisione della condizione esistenziale originaria, di cui ogni poesia come dramma partecipa, di cui il poeta esprime la sua irripetibile coscienza e di cui anche il lettore è intessuto: una lettura esistenziale è necessariamente una lettura ontologica ed antropologica, ma non psicologica ed antropocentrica. Leggere è partecipare al dramma, assumere la propria parte, non ripetere, perché il dramma è aperto, non-ancora scritto: camminando si apre il cammino.
La poesia è nella realtà come dramma aperto: chi scrive e chi legge attinge a questa profondità metafisica, intuitivamente, immediatamente, connaturalmente. La parola, con la storia e la tradizione che racchiude in sé e con la capacità di alludere, di rinviare, di anticipare, ne traduce la pregnanza, il paradosso, il non-ancora; ne apre possibilità inedite: perciò è creativa.